Spesso la difficoltà dei genitori a accettare i figli nella loro diversità è dovuta al fatto che essi hanno rinunciato alle proprie aspirazioni.
Ciò che stupisce è l’esplosione negli ultimi anni di una letteratura educativa in cui il processo di crescita viene rappresentato frammentato e parcellizzato. Il bambino è descritto nei suoi bisogni anno per anno della sua esistenza in un ottica in cui le differenze personali spariscono in nome di una uniformità artificiosa e ingannevole. Queste teorie, come ogni generalizzazione, anziché stimolare la riflessione forniscono schemi spersonalizzanti, risultando assai poco attendibili e allontanano le persone dalla qualità specifica fondamentale del processo educativo: la relazione empatica.
La costruzione di regole universali, nata dalla necessità del sistema di avere controllo e potere, deriva da una concezione educativa che pone in primo piano la razionalità e sminuisce il valore della condivisione del vissuto emotivo: il bambino a cui non è consentito esprimere i propri sentimenti cresce con la percezione di essere sbagliato e in questa operazione disconosce se stesso, perde il contatto con la propria interiorità e diminuisce la capacità di rapportarsi agli altri; il bambino invece che cresce trovando ascolto e accettazione sviluppa un sostanziale senso di sicurezza e autostima che lo rende capace di instaurare relazioni autentiche e soddisfacenti.
È nella positività della relazione primaria con la madre che si pongono le basi per il successivo sviluppo dell’uomo; raggiunge un buon senso di sicurezza ed autostima chi ha avuto fin dalla primissima infanzia l’opportunità di vivere una relazione autentica. Maggiore è stato il privilegio per un bambino di agire liberamente e sperimentare comportamenti creativi protetto dall’approvazione genitoriale, migliore sarà la sua crescita fisica, psichica, intellettiva, la sua futura capacità di esplorare il mondo, ampliare le proprie risorse, provare piacere di vivere, cercare soluzioni personali.
Favorire una crescita sana significa sostenere il figlio affinché possa capire se stesso, vivere le proprie predisposizioni e potenzialità in divenire. A tal fine gli strumenti del genitore non sono il consiglio, la regola o la punizione ma l’ascolto empatico e la comprensione neutrale delle motivazioni interne. L’ipotesi fondante di questa concezione è che l’essere umano ha una tendenza positiva e naturale verso l’auto-realizzazione, per cui se un bambino o un’adolescente respira fiducia e libertà e sente che per nessuna ragione al mondo sono messi in dubbio l’amore e il suo valore personale, è indotto a scegliere strade positive e costruttive. Laddove il giudizio e l’uso del potere sono esclusi in nome del rispetto dell’essere umano a seguire la propria tendenza specifica, germoglia il seme della realizzazione.
Credenza comune è che l’empatia si risolva essenzialmente in un atteggiamento di disponibilità facilmente assumibile da ogni essere umano; questo fa nascere la presunzione nelle persone che diventano genitori, di sapere istintivamente cos’è bene per i propri figli. È essenziale stroncare tale illusione poiché l’empatia è in primo luogo “ascolto” che per rivelarsi efficace richiede impegno, maturazione, conoscenza. Occorre imparare quanto la nostra educazione ha deliberatamente nascosto: cioè a comprendere le nostre emozioni e desideri e ad agire di conseguenza; solo così le persone avranno le qualità necessarie per essere di supporto alla crescita dei loro figli perché come diceva Jung “Ciò che più influisce sui figli è la vita non vissuta dei genitori”. I genitori sono responsabili dello sviluppo dei membri della più piccola società umana, ma non avendo fatto esperienza da fanciulli dei valori fondamentali che la reggono quali il rispetto, l’ascolto, la consolazione, la rassicurazione… come possono trasmetterli?
Spesso la difficoltà dei genitori a concedere libertà ed accettare i figli nella loro specificità e diversità è dovuta al fatto che essi hanno dovuto con dolore rinunciare alle proprie aspirazioni per conformarsi ai principi comuni. Hanno sofferto ma poi si sono piegati ed è la loro esperienza l’unica che possono trasmettere. Su questa catena infinita si fonda l’affermazione della cultura dominante: abusando del bisogno del bambino di sentirsi amato e della sua conseguente adattabilità. Spesso crescendo anche le altre relazioni che il ragazzo vive con gli adulti prendono questa impronta: educatori e insegnanti si arrogano il diritto di dirgli cosa deve fare o dire o sentire senza informarsi della sua opinione; tutti sanno qualcosa di lui, anche ciò che lui stesso non sa, e il ruolo educativo si trasforma da protettivo a manipolativo. Come può un giovane fidarsi se si sente umiliato, non approvato, non sostenuto nello sviluppo della propria autonomia?
È fondamentale per un genitore imparare a trasformare l’autorità in autorevolezza e sostegno perché il figlio possa assumere gradualmente il rischio della propria indipendenza e divenire a sua volta sensibile e auto-protettivo. Un figlio presta attenzione al padre se si sente compreso, rispettato, incoraggiato, consolato e da adulto impara a fare lo stesso con i propri figli. Se così fosse probabilmente l’adolescenza non sarebbe quella “catastrofe” familiare che ora è per antonomasia! Qual’è la grande differenza fra la relazione di un genitore con un figlio piccolo e quella con un figlio adolescente? Un bambino, essendo più vulnerabile, non mette in discussione le regole genitoriali se non con gli episodici “capricci” che, così etichettati, non si rivelano molto rischiosi per le questioni gerarchiche: a volte i genitori cedono ai desideri del loro figlio, altre volte no, e il ruolo verticale non viene scalfito. Gli individui sono talmente abituati a ritenere le regole più intelligenti del sentire, che trovano assurdo pensare ad un piccolo essere come ad un qualcosa dotato di saggezza interna, capace di “autoregolarsi” e “auto-dirigersi”, per cui si va avanti in questo modo finche il “NO” del bambino diventa così forte da non passare inosservato… e i giochi familiari si scardinano.
Un ragazzo adolescente ha bisogno di differenziarsi, perché nel divenire adulto comincia a cercare le proprie opinioni, deve sapere quali sono le proprie capacità e la propria forza e se in questa fase così delicata continua a sentirsi osteggiato ed umiliato, avrà necessità suo malgrado di diventare arrogante e di opporsi. Egli vive una situazione emotivamente esplosiva: inizia a sentire nelle sue mani il potere e la responsabilità del suo presente e del suo futuro; sperimenta la libertà, il sesso, l’amore, la speranza professionale, tutto in maniera dilatata rispetto a quando era bambino. E’ disorientato perché non sa niente, ma non vuole i consigli degli altri; vuole essere ascoltato per potersi capire e fare a modo suo. I riti sacri degli antichi insegnano che per divenire adulti, all’acquisizione di maggiore potere è sempre associata maggiore responsabilità: questo è una mitologia poco presente nella nostra cultura anzi quando in una famiglia un figlio cresce spesso il genitore anziché lasciarlo andare entra in panico e non sa più cosa fare: non sa sostituire quel bambino obbediente, sente di perdere autorità, potere, valore personale, utilità.
Se un genitore ha impostato la propria vita sui figli lo scontro sarà inevitabile. La relazione può mantenersi felice se, pur nel cambiamento anch’egli è in un processo di trasformazione che lo spinge a capire anziché scontrarsi o volersi imporre. Avere un figlio adolescente è per un genitore come chiudere un capitolo… deve essere in grado di progettarne un altro altrimenti non saprà più come vivere. In questo caso mi chiedo: sarà più in crisi il figlio adolescente o il suo genitore? L’unica possibilità di sentirsi realizzati ed amati è rimanere fedeli a se stessi senza lasciarsi troppo sfuggire l’orientamento; un percorso che implica la piena responsabilità e accettazione delle proprie diversità, il permesso alla creatività senza lasciare spazio ai rimpianti, per ritrovare sempre, a qualsiasi età ed in qualsiasi occasione, quella serenità interiore tanto agognata, che dà valore alle nostre scelte e relazioni affettive.
Come genitori si è portati a far confusione tra le proprie difficoltà vissute da bambini e le esperienze che riguardano invece i propri i figli; diceva Bettelheim, famoso psicologo americano, a proposito dell’impegno dei genitori verso i figli, che “l’amore non basta” perché i figli hanno bisogno non solo di “sapere” di essere amati, compresi e rispettati per quello che sono ma di “sentirlo”. “Farò ogni sforzo per vedere chi sono veramente i miei figli e per accettarli così come sono ad ogni età, invece che lasciarmi accecare dalle mie aspettative e paure…” I bambini sono l’anello debole della catena in una società che tramite le sue organizzazioni come la scuola e la famiglia vuole forgiare individui secondo le proprie necessità ed i bambini rimuovono le esperienze umilianti e dolorose dalla loro mente, ma il vissuto riaffiora nel corpo che guida da adulti il loro comportamento. Per umiliazioni non mi riferisco solo alle botte o alle violenze ma anche alla pressione psicologica che indebolisce la personalità e rende insicuri. Nella pedagogia classica tale realtà è in genere mistificata; l’autorità e l’imposizione viene spacciata per giusta, normale. L’attenzione è sempre rivolta al genitore pieno di doveri e responsabilità e mai a quella creatura piena di speranza, sogni, amore da dare e ricevere, che non può neppure assaporare l’innocenza e la fanciullezza per assolvere ai compiti già programmati per lui.
Gli esseri umani hanno un bisogno innato di relazione e contatto; chi non ha ricevuto nell’esperienza primaria delle buone basi per relazionare da adulti in modo soddisfacente è spesso in balia di un senso infinito di “vuoto”. Nulla può sostituire l’esperienza perduta, ma il recupero della salute psichica è ritrovare ciascuno la propria “verità” senza più dover negare o idealizzare. Una “relazione terapeutica” empatica può essere riparatrice di questa mancanza quando aiuta la persona a ricontattare i sui reali sentimenti.