Dedicato a mio figlio Alessandro
A te ho donato il mio amore e il rispetto della tua essenza, tu mi hai ridato il senso della vita, e la voglia di credere in me. Sai, ragazzino, mi sono sempre chiesta chi è stato fra noi due a metterci al mondo
Premessa
La relazione che cura è l’edizione riveduta e accresciuta del volume “Verso quale trasformazione”, uscito nel 2005 presso altro editore. L’entusiasmo dei lettori e il rapido esaurimento delle copie tirate mi hanno convinto sull’opportunità di non procedere a una semplice ristampa ma di rivedere e ampliare alcune parti, insomma di mettere in cantiere una nuova edizione.
A questo scopo ho rivisitato le Esperienze, la parte operativa di ciascun capitolo, rendendole fruibili anche ai singoli lettori e consentendo, così, un uso «interattivo» del testo; ho arricchito e approfondito la parte relativa all’Enneagramma; ho, infine, aggiunto un Glossario dei termini specialistici e degli autori citati per agevolare la comprensione del testo anche ai lettori meno introdotti nella conoscenza del settore: come ogni autore che crede nella propria opera, io pure ho il desiderio di vedere crescere il numero di coloro che potranno trarre vantaggio dalla lettura del mio scritto.
In occasione delle conferenze di presentazione della precedente edizione del libro mi sono accorta che, nonostante avessi indagato su molti aspetti delle relazioni umane, la mia attenzione si focalizzava spontaneamente sulla tematica di base, centrale ed essenziale rispetto a tutte le altre: la relazione primaria come elemento fondante per la successiva realizzazione dell’essere umano; la connessione tra ciò che si è ricevuto nell’infanzia e la possibilità di diventare persone soddisfatte, creative, responsabili.
Le basi per una crescita «sana» derivano dall’avere avuto, sin dai primi momenti di vita, almeno una persona, un genitore, che abbia compreso i nostri sentimenti, ci abbia dato valore, rispetto, lealtà, protezione, consolazione, rassicurazione; ci abbia regalato questo miscuglio esplosivo degno di essere chiamato «amore», anche se preferisco non usare questa parola troppo spesso utilizzata impropriamente. Tale esperienza fa nascere la fiducia in se stessi, amplia l’intelligenza, la sensibilità, la recettività, rende capaci di empatizzare con gli altri, avere relazioni nutrienti e inseguire i propri sogni di realizzazione.
Dice Alice Miller: «Gli individui che nell’infanzia non hanno dovuto subire violazioni alla loro integrità psichica o fisica e a cui è stato concesso di sperimentare protezione, rispetto e lealtà da parte dei genitori, da giovani e in seguito saranno intelligenti, ricettivi, capaci di immedesimarsi negli altri e molto sensibili. Godranno della gioia di vivere e non avranno affatto bisogno di far del male agli altri o a se stessi. Non potranno fare a meno di rispettare e proteggere i più deboli, ossia anche i propri figli. Dal momento che il compito inconscio della loro vita non sarà quello di difendersi dalle minacce subite nell’infanzia, essi saranno in grado di affrontare in maniera razionale e creativa le minacce presenti nella realtà».
Da bambini siamo l’anello debole della catena all’interno di una società, rappresentata prima dalla famiglia poi dalla scuola, che vuole forgiarci secondo le sue aspettative, a costo di portarci a essere diversi da come siamo. Per il grande bisogno di accettazione e in mancanza di un’atmosfera accogliente, ci adattiamo a ogni sorta di situazione. Ci sentiamo umiliati e incompresi, ma crediamo di essere noi a sbagliare; iniziamo così a percepire un senso di «indegnità», un’insicurezza di fondo, dovuti non solo alle esperienze angoscianti e frustranti, ma soprattutto al fatto che siamo costretti a negarle, a distorcerne i contenuti. Con il termine «umiliazione» non mi riferisco solo alle violenze fisiche o agli abusi, ma anche alla continua e sottile pressione, che più o meno tutti abbiamo ricevuto, per seguire e soddisfare le aspettative altrui. Secondo la pedagogia classica, denominata anche «pedagogia nera» viene indicato come doveroso e conseguente al ruolo di genitori usare l’autorità, l’imposizione e il controllo con i propri figli; l’umiliazione data a un bambino non viene reputata grave o dannosa, e mentre in qualsiasi altro ambito dell’esistenza si tende a evolvere e a migliorare, nella sfera educativa l’antica mentalità, «una sberla forgia il carattere», prospera e si espande in una realtà sempre più mistificata. È incredibile come parlando di educazione e di relazione genitori-figli l’attenzione sia focalizzata quasi esclusivamente sul genitore che sta per assumere nuove e importanti responsabilità, e non invece a quella creatura piena di speranze e di sogni cui è negato assaporare l’innocenza e la gioia di essere al mondo.
Da bambini abbiamo preferito sentirci inadeguati e non meritevoli piuttosto che lasciarci sfiorare dal dubbio di non essere amati; abbiamo idealizzato la realtà contingente perché era l’unica nostra risorsa, anche se difensiva, ma da adulti la negazione della realtà non è utile poiché il vissuto delle esperienze dolorose, mai dimenticate dal corpo, riaffiora forte e incontenibile, guidando il nostro comportamento più della ragione.
Ogni bambino vorrebbe svelare se stesso ed essere sincero con i genitori senza temere di essere sgridato, punito o deriso, e nulla potrà mai restituire quell’esperienza perduta. La guarigione psichica, all’interno di una relazione terapeutica, non risiede quindi nel ricevere ora quanto non è stato dato in passato, ma nel riscoprire ognuno la propria «verità», giacché solo nella realtà delle nostre radici, qualsiasi esse siano, risiede la nostra forza. Una relazione terapeutica è riparatrice del passato se paziente e terapeuta assieme trovano il coraggio e l’apertura di far riaffiorare verità nascoste; se il terapeuta, divenendo testimone neutrale ed empatico, sa sostenere il paziente nel rompere il muro velenoso dei sentimenti inconfessati, per riscoprire aspetti dimenticati di sé, riconoscere la propria storia, ritrovare forza nel proprio sentire, saper leggere i contenuti importanti della propria vita.
Counselling e relazione «empatica»
Noi tutti abbiamo una sete incolmabile di relazione e contatto ma, non avendone sperimentato le qualità essenziali nell’infanzia, siamo in difficoltà da adulti a mettere in atto dinamiche sconosciute e creare rapporti soddisfacenti, diretti e non manipolativi: questa realtà di incapacità e mancanza è causa del «male di vivere», e ferita di ogni essere umano. Per questo motivo la Gestalt si propone come terapia anche per «sani»: perché difficilmente si riescono a superare da soli, senza essere aiutati, i vizi relazionali appresi che portano a non riconoscere l’amore e a scambiarlo con il potere, l’approvazione, l’avere ragione… La relazione d’amore, qualsiasi tipo d’amore, filiale, amichevole, fraterno, fra amanti, come nessun’altra esperienza al mondo, porta energia, gioia e voglia di vivere; ma quando due persone iniziano a intendersi, capirsi, desiderarsi, spesso ignorano di avere fra le mani un potenziale fantastico da utilizzare al meglio o al peggio, da far fluire in tutta la sua vitalità o al contrario da disperdere e far fallire. E troppo spesso, sapendo solo riprodurre gli stessi schemi comportamentali appresi, ostacolano o rendono inefficace tale potenziale.
Come lavorare a livello terapeutico per sanare questa mancanza di addestramento e recuperare la capacità di vivere relazioni piacevoli, potersi abbandonare all’altro, stare insieme senza soffocare o sentirsi soffocati, dover a ogni costo dominare, vincere o fuggire? Come raggiungere un equilibrio fra il desiderio di contatto e il bisogno di silenzio e solitudine? Come non temere la solitudine?
In questo quadro ha senso parlare di Counselling e di relazione «empatica» in cui la relazione «terapeuta-paziente» è paradigma per le altre relazioni, e le qualità di autenticità, neutralità, partecipazione, condivisione diventano modalità da utilizzare nel mondo.
Come scegliere il terapeuta
È difficile trovare un terapeuta adatto; il presupposto fondamentale di tale ricerca è la consapevolezza da parte del paziente dei propri bisogni. Se prima di iniziare le varie relazioni terapeutiche e formative mi fossi chiesta cosa mi era necessario per superare le mie difficoltà, avrei scelto quei terapeuti? Allora il bisogno e il malessere annebbiavano le mie capacità di percepire me stessa e l’altro, ma ora a tale domanda saprei rispondere: di aver bisogno di una persona empatica, onesta, capace di guidarmi nel lavoro corporeo, e soprattutto che abbia fatto lo stesso per se stessa, sia passato attraverso tali difficoltà e abbia sperimentato in prima persona l’aiuto terapeutico.
L’unica possibilità per capire se un terapeuta è questo tipo di persona, oltre all’intuito, è rivolgergli delle domande. Può sembrare assurdo e fuori luogo entrare nello studio di un terapeuta e, prima di parlare di sé, porre domande all’altro! Potrebbe essere recepito come un atteggiamento provocatorio e indurre nel terapeuta reazioni difensive, risposte insincere o rifiuto e a catena creare in noi disagio e amarezza; ma la possibilità di scelta è la nuova grande opportunità degli individui adulti. Da bambini non era permesso scegliere, ora è un diritto scegliere il meglio per sé, avere fiducia dei segnali del corpo e, se non ci si sente bene con qualcuno, ammetterlo e non reprimere i propri sentimenti. Quando succede di essere veramente e profondamente compresi, il corpo si esprime molto chiaramente poiché si rilassa; una risposta ostile, incompleta o sulla difensiva sarà anzi un ottimo indicatore per non sprecare denaro, tempo, energie e speranze. Se invece il dialogo è possibile e le risposte soddisfacenti, ci si sentirà a proprio agio, incoraggiati a chiedere di più, a iniziare a parlare di sé, ad aprirsi.
Se dovessi scegliere ora un terapeuta cercherei di capire se è una persona così forte e potente da aver dimenticato la fragilità e le ferite antiche, o se invece è umile e forte al contempo da non sminuirle per allontanare da sé il dolore; vorrei comprendere se è una persona che tiene a distanza i sentimenti e preferisce filosofare, poiché questa modalità fa sentire indifesi, umiliati, incapaci di dare importanza ai propri bisogni; allora sarebbe una ripetizione dell’esperienza antica, affatto terapeutica.
Una relazione terapeutica, per essere tale, deve portare il paziente a esprimersi, a sentirsi capito, rispettato, preso seriamente; se questo non avviene non vi è nessuna qualità sanante. È importante, per potersi affidare, che il terapeuta abbia il coraggio di rispondere in modo schietto, altrimenti semplicemente non è la persona giusta. Non cerchiamo un ideale inesistente: l’autenticità e l’onestà esistono ed è irrinunciabile che siano le qualità del nostro terapeuta.
Introduzione
«Le ragioni e la forza di vivere stanno nella conoscenza delle autentiche condizioni della nostra vita» — S. de Beauvoir —
Volgendo lo sguardo indietro nel tempo e osservando il mio peregrinare da un maestro all’altro, da un terapeuta all’altro, sia come paziente che come aspirante professionista, riconosco le influenze e le qualità ricevute da ognuno. Vi sono stati terapeuti, maestri carismatici, stupefacenti per l’abilità, l’originalità e l’immediatezza nell’individuare problemi e la vastità del loro sapere teorico, che mi hanno suscitato ammirazione e fascino; ve ne sono stati altri per i quali ho provato profonda stima e riconoscenza, non solo e non tanto per la modalità di operare e per la loro cultura, ma per l’infinito rispetto trasfuso a me e agli altri in quanto esseri umani.
Oggi provo un certo imbarazzo per aver creduto che alcuni fossero a tal punto superiori da poter risolvere ogni problema, svelare ogni segreto, salvare la vita; in realtà sono state le qualità dell’accoglienza, della delicatezza e dell’autenticità a imprimere una traccia indelebile, a incoraggiarmi a credere in me stessa, insegnandomi una lezione fondamentale: non vi è persona superiore a un’altra, non esiste nessuno con il potere di convalidare e risolvere la vita di un altro. Questa è la realtà più vera su cui poggia ogni relazione umana e terapeutica, e come terapeuta ora io so che, al là di quanto insegno, il paziente impara quello di cui ha bisogno.
Avendo coltivato per tanti anni l’illusione di trovare in qualcuno il paradiso perduto, un momento fondamentale del mio percorso terapeutico è stato accettarne la fine: un passaggio difficilissimo in cui ho scoperto quanto sia vero che le più grandi battaglie si combattono dentro di noi. Nulla nella mia vita era cambiato: alternavo momenti di dolore e di felicità, ma intimamente provavo una sensazione di sollievo nel prendermi la libertà di rispettare i miei tempi, fidarmi delle mie intuizioni, fantasie, desideri, credere nel mio sentire; concedermi la libertà di essere giusta o sbagliata, allegra o in lacrime senza preoccuparmi di dare o ricevere spiegazioni.
Il sentirmi sola e unica responsabile della mia vita mi ha spinto a essere più attenta e vigile nelle scelte, e nello stesso tempo più permissiva, bizzarra e spavalda nello sperimentare situazioni nuove, nel tornare indietro e rifiutarle se non erano buone per me. Posso soffrire la solitudine ma accoglierla per ascoltarne la ricchezza; prendermi il lusso della pigrizia, trovare noiose situazioni comunemente considerate stupende e finalmente accettare e apprezzare la realtà della mia incoerenza! Provo gioia nel non cercare modelli di equilibrio e creatività solo altrove, poiché anch’io ho qualcosa da dire e questo mi fa sentire bene. Darmi ascolto e fiducia ha richiesto impegno, silenzio, auto-incoraggiamento e un’accurata scelta delle persone di cui circondarmi.
Se incontrate sulla vostra strada degli «artistofagi», termine usato da Julia Cameron nel suo libro La via dell’artista, finita la relazione dovrete curarvi dal malessere rimastovi nella mente e nel cuore. Non fa differenza chi darà il segnale di stop, poiché il problema non sarà l’abbandono, ma il sentirsi svuotati e persi come se tutte le buone qualità fossero naufragate con loro e a voi non restasse altro che un senso di fragilità, fallimento, incertezza, mancanza di forza. Inizialmente queste persone sembrano avere il dono di salvarvi dagli abissi più scuri e infondere uno speciale vigore, ma in realtà sono loro che hanno bisogno di voi e soprattutto di essere visti così: indispensabili, unici, ineguagliabili… e sino a che sono creduti, seguiti, amati, perché dovrebbero cambiare? Si è mai visto un imperatore detronizzarsi da solo?
Nella mia vita ho incontrato molti aristofagi e ho cambiato direzione solo quando mi sono accorta che il prezzo, ripetutamente pagato in salute fisica e psichica, era ogni volta più alto. Certo, l’attrazione esercitata da tali personaggi è veramente potente in coloro che non hanno ricevuto da bambini un riconoscimento amorevole del proprio valore personale; io sono fra loro e credo anche molti di voi condividano e si identifichino in questa esperienza. Riassumo alcuni brani di J. Cameron incredibilmente efficaci:
«Gli aristofagi sono individui carismatici, affascinanti, coinvolgenti, di grande potere persuasivo ed invasivo; si circondano di persone dotate e creative ma bloccate che mettono inconsciamente il loro talento al servizio del re. Essi possono prendere il sopravvento sulle vostre vite e sembrare irresistibili per il turbinio di cambiamenti e distrazioni che portano; a volte personaggi famosi, a volte illustri sconosciuti, sono presuntuosi, megalomani, maniacali.
Gli aristofagi fondano le loro relazioni sul potere e qualsiasi individuo può essere visto come una fonte energetica da drenare; rompono impegni, distruggono programmi, in mano loro il tempo è uno dei maggiori strumenti di sopraffazione; si aspettano un trattamento speciale e sono infastiditi da qualsiasi cosa distolga l’attenzione dalle loro richieste; odiano l’ordine poiché il caos serve ai loro progetti. Deprezzano le realtà altrui, ignorandone i bisogni; fingono di rispettarvi ma, in pratica, ciò che non li riguarda ha ben poca importanza; sono esperti nel biasimare, screditare, negare la responsabilità di qualsiasi cosa accada, addossando a voi la colpa di tutto.
Ma se gli aristofagi sono a tal punto distruttivi, cosa ci facciamo noi invischiati nelle loro trame? La risposta brutale ma sincera è che siamo pazzi e autodistruttivi noi stessi e, quando scegliamo di servirli, agiamo spinti dalla fragilità, insicurezza e paura di seguire il nostro flusso creativo, impedendoci così di vivere, rischiare, amare. Allora, se siamo coinvolti in una danza di morte con persone del genere, semplicemente smettiamo di danzare al loro ritmo».
Cosa mi calamitava verso di loro? La mia storia di bambina. Da piccola, le idee magiche sull’onnipotenza di mio padre e mia madre erano tali da farmi immaginare che con il loro cognome sarebbe stato impossibile prendere un voto basso! Facile dedurre le insicurezze e la disistima prodotte in me da tali mitizzazioni: io non ero niente e loro tutto. In seguito, fu inconsapevolmente molto logico lasciarmi affascinare e conquistare da chi aveva caratteristiche simili da chi vedevo in un’aura di perfezione irraggiungibile.
È più facile dubitare di se stessi che delle divinità: finché si ha bisogno di tenere gli occhi bendati, di difendere chi ci spreme la vita, di credere in lui o in lei al di là di ogni limite, è possibile illudersi, morbosamente e perdutamente, di essere appoggiati e protetti. Ora non vi sono più aristofagi nella mia vita, poiché ho imparato a dire NO quando lo sento necessario, dei NO importanti, che un tempo mi sembravano impossibili. Mi sento interessata, affascinata e attratta da persone che si rivelano generose e presenti, con cui è possibile uno scambio concreto e autentico, per cui esisto, che si accorgono di me…
Siamo frenati nel seguire il nostro intuito dalla vergogna di mostrarci diversi, dalla paura di essere giudicati strani e sconsiderati, dal senso di colpa per non assecondare l’altro, dissentire, non essere d’accordo. Questi sentimenti invischianti e bloccanti sono di fatto collanti fortissimi, capaci di tenere insieme per tutta la vita persone che non hanno più nulla da dirsi. Sono i meccanismi usati nei processi di spersonalizzazione, parti integranti dei sistemi manipolativi, descritti in maniera così lucida e sconvolgente da Maria del Carmine nella sua autobiografia “Oltre la soglia”, un libro suggestivo per la veridicità delle questioni trattate: le sue vicende all’interno dell’Opus Dei.
È difficile sentirsi realizzati e amati in un mondo così malato di «dover essere» e l’unica possibilità è rimanere fedeli alla nostra natura e non concedere agli altri il potere di farci perdere l’orientamento. Il cammino verso noi stessi implica una grande presa di responsabilità e l’accettazione delle nostre emozioni, impressioni, immagini, peculiarità. Permettersi di abitare le sensazioni del vuoto e del dolore in attesa della fertilità creativa, darsi la possibilità di iniziare, sbagliare e ricominciare, senza lasciare troppo spazio ai rimpianti, è la strada per ritrovare quella serenità interiore tanto agognata, che dà valore ai nostri progetti, costanza ai nostri sforzi, speranza nei risultati.
Paradossalmente questa è anche l’unica via per raggiungere una reale intimità con gli altri esseri umani. Un rapporto di fiducia, comprensione e profondità può nascere solo se con l’altro siamo autentici, trasparenti e fieri tanto da sciogliere e annullare, anche se solo per brevi istanti, l’abissale senso di solitudine esistenziale che ci accompagna da sempre; al contrario, quando non osiamo mostrare chi siamo, la relazione falsata dai bisogni non detti ci farà sentire più soli e nessun reale calore potrà scaturirne.
Una paziente una volta mi disse: «Mi sono accorta di avere tollerato i soprusi di mio marito perché tradivo me stessa ora che provo più rispetto per me l’ho lasciato e spero sia questo nuovo impulso a condurmi fra le braccia del prossimo amore». Era alla ricerca di quel benessere personale dovuto all’indipendenza da persone distruttive e sentiva che io avrei potuto essere di sostegno al suo intento: spesso paziente e terapeuta si trovano ad affrontare, in tempi diversi, stesse problematiche.
Nella relazione terapeutica la sensazione di essere compresi aiuta a credere in se stessi e quella comprensione si trasforma per il paziente in capacità di auto-sostegno. Le domande fondamentali sono: cos’è veramente efficace e incisivo nella relazione d’aiuto in termini di cura e crescita personale? Cosa può aiutare l’uomo ad amare se stesso, a ritrovare la sua essenza, l’antica saggezza, la capacità di star bene nel mondo? Trovare risposte a questi interrogativi mi stimola alla riflessione e alla ricerca, sia attraverso queste pagine sia attraverso la continua e sempre rinnovata esperienza terapeutica e formativa.
Rogers disse che, facendo psicoterapia, si accorgeva di fare politica. Questa idea mi ha da sempre intrigato e coinvolto; l’obiettivo dominante, da quando mi si è insinuato il desiderio di questa professione, era offrire il sostegno che io avevo ricevuto, accompagnare altri alla ricerca del benessere, aiutare a trovare il coraggio e la forza di vivere pienamente e di partecipare al processo di trasformazione creativa. Questa è la politica dell’anima rivolta dall’interno verso l’esterno, affinché l’uomo, migliorando se stesso, possa migliorare il mondo che lo circonda.
Per dar vita a questo libro ho avuto necessità di fare chiarezza, rievocare le esperienze passate e le persone che mi hanno aiutata e colpita, elaborare le idee a cui ho aderito e ridefinirle in profondità, poiché avevo l’impressione che tutto fosse troppo affollato e confuso dentro di me. Con questa introduzione, oltre al piacere di condividere la mia esperienza, coltivo la speranza di essere utile a orientare la scelta di chi desidera intraprendere percorsi di crescita personale. Ho cercato momenti di silenzio e concentrazione per scrivere e spesso è stata un’impresa dura, impegnativa e complessa, ma era così grande l’inquietudine quando non mi concedevo tali spazi che l’avventura, fra alti e bassi è finita.
Dice Jung: «Il vero punto di infiammabilità creativa è il luogo dove lavoro e gioco si confondono»; meraviglioso concetto da tenere presente quando ci si getta nel vortice di una nuova impresa. Questa osmosi fra lavoro e passione ha guidato la mia attività di psicoterapeuta ed è stata fondamentale per superare tante difficoltà, ma la motivazione che mi ha indotto a scrivere non è nata da un’ispirazione creativa, bensì da un sogno di realizzazione: metaforicamente è stata la vetta di una montagna che ho voluto scalare anche se mi piace il mare!
Il mio tentativo non è offrire pillole di saggezza, né sminuire le difficoltà con l’idea falsamente consolatoria che la vita è bella e per essere felici occorre solo imparare a viverla. Anche quando troviamo risposte ai nostri problemi, dubbi e angosce scopriamo sempre che la realtà riserva sorprese e la quotidianità è più complicata di quanto potessimo pensare. Il mio desiderio semmai è quello di aiutare me stessa e altri ad alleviare l’amarezza delle disillusioni, delle idealizzazioni, delle vacue speranze per vivere il più possibile in uno stato di realtà e di benessere.
Cos’è il benessere?
- Benessere è sentirsi amati e riconosciuti come esseri umani, dando a se stessi il diritto di essere come si è: depressi, ansiosi, isterici, felici, infelici, arrabbiati senza rinunciare al proprio sentire e al proprio punto di vista.
- Benessere è l’abilità di prendersi cura di se stessi, di essere vigili, di proteggere il proprio confine, riconoscendo le insidie dell’ambiente e avendo imparato a reagire in maniera efficace nelle differenti situazioni anche sgradevoli.
- Benessere è scegliere le persone di cui circondarsi e in mancanza di relazioni significative dare il benvenuto alla solitudine non come segno di malattia, ma come importante momento dell’esistenza per realizzare una vita degna di essere vissuta, secondo il proprio personale giudizio e i propri valori.
- Benessere è mantenere nel cuore il desiderio di contatto con persone che hanno voglia e coraggio di vivere nonostante i momenti di dolore, angoscia, paura e smarrimento, che sentono il sollievo del sostegno reciproco, il piacere della scoperta, il valore dell’autenticità, della vicinanza, della speranza.
In questi ultimi anni, dedicati soprattutto alla conduzione di gruppi terapeutico-formativi, in cui la teoria non viene data a scaletta, ma in una continua alternanza e connessione con la pratica, ho riscontrato la validità e la potenza di tale duplice metodologia: essa si rivela terapeutica, in quanto l’intensità emotiva della condivisione e del sentirsi sostenuti dal gruppo dà luogo al verificarsi nel tempo di cambiamenti nella vita delle persone precedentemente ritenuti impossibili; formativa, poiché consente di accedere a quel tipo di conoscenza che lascia una traccia nel corpo e non viene dimenticata dalla memoria.
Esperienze
Il testo corrisponde sinteticamente al percorso proposto e a ogni parte teorica segue un’esercitazione pratica. Le «esperienze» non sostituiscono in alcun modo un percorso terapeutico, ma favoriscono il risveglio individuale e l’auto-consapevolezza. Gli esercizi sono utilizzabili sia in modo autonomo da singole persone, coppie o piccoli gruppi, sia da terapeuti nella conduzione di gruppi esperienziali. Alcune di tali esperienze possono essere realizzate solo in coppia o in gruppo e, in questi casi, è specificata la categoria accanto al titolo. In tutti gli altri casi gli esercizi possono essere realizzati anche individualmente.
Feedback
Al termine di alcune Esperienze, è suggerito di comunicare il proprio vissuto con dei feedback, cioè esprimere cosa si è provato in se stessi durante l’esperienza e quali reazioni si sono avute nei confronti degli altri, esprimendo così partecipazione. Perché un feedback sia nutriente, per chi lo pronuncia e per chi lo ascolta, non può essere un giudizio né un’interpretazione, ma deve essere formulato in modo da trasferire, attraverso sensazioni, emozioni e immagini, il proprio vissuto verso l’altro. Nei gruppi i feedback dei partecipanti sono parte integrante della conduzione, indispensabili alla realizzazione di uno scambio profondo ed emotivamente intenso da parte di tutti; naturalmente il terapeuta dovrà vigilare affinché siano resi secondo le modalità descritte.
Un feedback privo di giudizio e di interpretazione allarga gli orizzonti e crea unione; il giudizio e l’interpretazione, al contrario, oltre a suscitare disagio e imbarazzo, se positivi rischiano di imprigionare le persone nel bisogno di approvazione di chi gli sta intorno; se negativi feriscono, bloccano l’espressione futura e la capacità introspettiva.