Accettare di sentire dolore è paragonabile a un rito iniziatico di abbandono di una parte di sé per lasciare emergere nuove risorse.
Sulla depressione si è detto molto, ma raramente ci si interroga sul significato che questo stato dell’anima ha per le nostre vite e sul messaggio che dà. Tradizionalmente è vista come una disfunzione dell’organismo di origine incerta, che stimola l’idea del “male oscuro” senza rimedio, una malattia da temere e sfuggire. Fra i disagi psicologici è certamente uno dei più diffusi e meno compresi: s’insinua in modo lento e sottile, togliendo un po’ alla volta la voglia di vivere; inizia con la stanchezza, la malinconia, il bisogno di stare soli; si perde interesse per le cose della vita ed è faticoso prendersi cura di sé. La depressione nella sua dimensione di apatia, disperazione silenziosa, mancanza di progetti e speranza per il futuro, mette a contatto con il vuoto e con il non senso; non vi è malessere che ricordi così da vicino la morte: è un implodere nel passato, in cui non vi sono possibilità né per il presente né per il futuro. Fare terapia ad una persona in preda a tali sentimenti è difficile; importante è non entrare in confluenza poiché questo contatto con il nulla sembra espandersi dall’uno verso l’altro ed essere empaticamente contagioso.
La Gestalt, considera la depressione come una condizione di vita intimamente connessa alla storia personale; la sensazione di angoscia svela l’esistenza di una realtà passata o presente di cui non si è consapevoli o che non si riesce ad accettare; affrontare questo disagio significa accogliere se stessi e la propria ferita per rinascere. Molte storie di depressione sono storie di risvegli; il passaggio attraverso il dolore è paragonabile ad un rito iniziatico in cui si abbandona una parte di sé fatta di malessere e immobilità, per contattare le potenzialità sopite della propria personalità e fare emergere le risorse creative e le vitalità nascoste nel profondo del proprio essere.
A volte uno stato depressivo è conseguenza di un episodio di perdita o di grande mutamento: separazione, divorzio, morte di una persona cara, cambiamento di lavoro, trasferimento, adolescenza, nascita di un bambino, menopausa…; altre è conseguenza di una mancanza antica non consapevole e mai elaborata. Nei due casi il processo psicologico è simile: vi è difficoltà e rifiuto a vedere la realtà e l’illusione di evitare il dolore. Alcuni raccontano di condurre una vita “normale”, soddisfacente, di aver avuto un’infanzia felice; apparentemente non hanno motivo per star male eppure sono malinconici e scontenti. Non vi è stato alcun evento scatenante, ma sentono la voglia di vivere abbandonarli giorno dopo giorno: sono questi i casi in cui la depressione nasce da una ferita antica e inconsapevole, mai contattata nell’età adulta. La ferita del non amore è un’esperienza infantile che ha segnato ogni essere umano, non occorre essere stati bambini maltrattati, abusati o ignorati per sentirla, poiché ognuno in diversa misura la porta dentro.
Molte sono le modalità del non amore subite dal bambino: a volte il semplice arrivo di un fratellino muta il contatto intimo con i genitori e il piccolo sente il rifiuto e l’improvviso distacco ma non potendo mettere in dubbio la bontà e l’amore di mamma e papà pensa di meritarsi ciò che accade; nasce così la sua scarsa autostima e l’impossibilità di percepirsi come essere meritevole d’amore. A volte la sensazione di essere rifiutato nasce perché il genitore, proiettando sul figlio le proprie aspettative e desideri mancati, non lo accoglie come una persona integra e distinta, non rispetta i suoi valori, desideri, interessi, anzi lo spinge a rinunciarvi, indirizzandolo altrove nella vana speranza di realizzare se stesso. In genere “la famiglia” è il migliore strumento della cultura dominante: essa impone ai figli di adeguarsi a modelli e convenzioni sociali, negando loro la possibilità di trovare la propria strada e la propria individualità. Il bambino impara l’amore dato al condizionale e non certo quella sensazione rassicurante di essere amato per se stesso e al di sopra di tutto: il “ti amo se…” gli impone di uniformarsi ai comportamenti proposti che lo allontanano dalle sue inclinazioni e qualità autentiche per cui si ritrova a condurre un’esistenza che non gli appartiene dando inizio alla sua storia di spersonalizzazione e adattamento per l’irrinunciabile bisogno di avere amore e accettazione.
La depressione arriva quando la vita che stiamo conducendo non è consona ai nostri desideri e in questo senso non ci appartiene! Preferiamo ammalarci piuttosto di riconoscere che l’amore ricevuto non ci ha nutrito e le scelte affettive e di vita attuali sono altrettanto deludenti e richiedono una svolta; temiamo di non reggere il bruciore della ferita mentre è proprio dalla sua accettazione che i sentimenti d’angoscia e inerzia possono trasformarsi ed acquistare il sapore dinamico di una realtà in cui tutto crolla per essere ricostruito.
Lo stato depressivo si manifesta poiché siamo focalizzati sul danno subito e coltiviamo l’illusione di ritrovare oggi l’amore negato nell’infanzia: un’illusione che offusca il presente, toglie energia ad ogni idea di cambiamento e conduce al ripetersi infinito di quell’esperienza d’impotenza. La rabbia soffocata e il rancore prendono spazio internamente e rinnovano il senso di vuoto e di abbandono. Si cerca l’amore come possibilità di guarigione dalle ferite antiche e a volte si trova una persona che pare riempire l’abisso, ma quella sensazione svanisce in breve tempo perché l’amore non può mettere radici e crescere su un terreno sterile e in mancanza di un autentico slancio di condivisione. Quando troviamo il coraggio di riconoscere la nostra realtà, di distinguere i desideri autentici dai condizionamenti esterni e assumere la responsabilità di vivere come vogliamo, eludendo alle aspettative altrui, inizieremo ad accogliere quanto l’esistenza offre.
E’ difficile trovare le parole per descrivere l’esperienza del dolore poiché ognuno di noi in genere è molto più impegnato ad opporvisi invece di ascoltarlo e lasciarlo fluire. Siamo convinti sia pericoloso lasciare questo sentimento divampare internamente perché temiamo possa diventare distruttivo come un fiume in piena. Intravediamo nel dolore quasi una via di non ritorno, guardiamo con sospetto e paura questa esperienza umana così potente e cerchiamo di sbarrargli la strada, mettendo in atto svariate strategie per fare scudo; ma così facendo non ci rendiamo conto della prigione: rinunciamo a vivere una vita con tutti i suoi sapori preferendo il controllo sui sentimenti. Provare dolore è parte integrante dell’esperienza umana come la nascita e la morte, come la gioia, la rabbia e l’amore, rifiutandolo ci allontaniamo da noi stessi e dall’unica cosa reale in quel momento per noi, dal centro della nostra esperienza, fulcro dell’energia creativa. Opponendoci a ciò che siamo il risultato è lo smarrimento e la perdita di significato per ogni cosa, non riusciamo più a desiderare perché i desideri partono dal sentire; entriamo in una spirale di malinconia e paralisi; senza più fantasticare e progettare siamo senza speranza e tutto ciò fa percepire la morte molto vicina.
La capacità di reggere dolore e frustrazione è alla base di un buon rapporto con se stessi e con il mondo e si sviluppa in età infantile, nella prime relazione affettive; queste esperienze strutturano la stabilità e la sicurezza della persona e la conseguente capacità di sostenere le emozioni in quanto esse hanno un flusso energetico di apertura e chiusura e come l’onda trovano nel punto più basso la forza per risalire. Questo è un concetto psico-fisiologico riconosciuto e molto consolante. In effetti noi sappiamo da sempre, a livello sensoriale, che il dolore fa parte della vita in quanto fin dalla nascita ne abbiamo fatto esperienza, ma da adulti abbiamo perduto la forza per accettare questa realtà. La non accettazione del dolore, la non sopportazione della frustrazione ha una forza distruttiva e ci rende inefficaci nel qui ed ora. Paradossalmente nel contatto con la sensazione di annientamento si può trovare l’aggancio con la nostra energia vitale. Quando smettiamo di consumare tutte le nostre risorse per negare noi stessi, recuperiamo le forze per scegliere come vogliamo vivere, reagire agli stimoli del momento e mettere in atto delle scelte di trasformazione.
La capacità di sopportare il dolore e tollerare la frustrazione senza sprofondare nell’angoscia, rivela un imprinting di fiducia in se stessi. Per gli esseri umani la cui sopravvivenza dipende per lungo tempo dagli altri, instaurare rapporti intimi significativi costituisce una delle tappe basilari della vita collegata però al rischio di essere rifiutati. Nel momento in cui consolidiamo la sicurezza in noi stessi diventiamo capaci di reggere le esperienze difficili senza lasciarci abbattere dalle avversità e siamo in grado di sviluppare le potenzialità creative. Vivendo un legame affettivo forte e profondo e facendo l’esperienza di non doverci negare per essere amati, desiderati e attesi acquisiamo la capacità di distinguerci e metterci in gioco. Non possiamo vivere senza affetti e inesorabilmente, quando un legame si infrange ci costringe al confronto con la solitudine: essa da un lato fa riemergere i fantasmi del passato, dall’altro offre la possibilità di dare un nuovo senso all’esistenza e origine a scelte creative. Molti hanno il terrore della solitudine e la evitano non rispettando la loro stessa esigenza di avere spazi per sé; si frastornano, circondandosi di persone o oberandosi di cose da fare. Ma questo auto-inganno serve poco perché, stare con persone con le quali c’è mancanza di affinità e nulla da condividere, aumenta la sensazione del vuoto .
E’ indispensabile accettare la propria condizione di solitudine esistenziale ed allo stesso tempo instaurare contatti profondi e legami intimi perché hanno il potere di stravolgere l’esistenza, di offrire forza e coraggio per affrontare il mondo, di sconfiggere la paura e guardare la realtà a testa alta: una polarità dell’anima stupefacente. La creatività si nutre del ritiro in se stessi; una condizione di solitudine e inquietudine è la circostanza migliore per favorire il flusso creativo. A volte la solitudine fa paura perché porta con sé idee minacciose altre volte invece viene vissuta in modo positivo e diviene fertile di pensieri e progetti sollecitando gli aspetti migliori a patto che la persona lo desideri. Non esistono meccanismi automatici tra aggressività, dolore, creatività, ma è indubbio che vivere creativamente significa prima di tutto distruggere, fermarsi nel vuoto in attesa dell’input per ri-creare. A volte la scelta della solitudine è il desiderio di essere padroni della propria vita: vi è un atto di coraggio che porta ad isolarsi per essere intimamente fedeli a se stessi in quanto ognuno di noi è per sua propria natura diverso da ogni altro e questa originalità è fonte di ricchezza e attrazione.
Essere creativi significa abbandonare gradualmente i condizionamenti esterni per cercare nuovi significati, rischiando di esporsi con le proprie immagini e punti di vista perché non si sente più il bisogno di essere approvati. Il senso di colpa per aver rinnegato vecchie convinzioni porta inizialmente ad un senso di fragilità interiore, ma nel tempo si rivela un’esperienza di profonda apertura e trasformazione. Dal vuoto fertile nasce il coraggio di muoversi verso il nuovo senza l’illusione di raggiungere la perfezione, su una strada priva di indicazioni in cui l’unico compagno sicuro è il dubbio. Sebbene a volte ci si trovi da soli più per costrizione che per scelta, potremmo considerare questi momenti come delle opportunità per crescere nella sensibilità ed adempiere al nostro compito fondamentale di realizzare noi stessi.
Il rapporto terapeutico inizia con l’ascolto del dolore del paziente: il terapeuta si sintonizza sul livello emotivo costituente lo stato fenomenologico della depressione. Il solo fatto di poterne parlare offre la possibilità di familiarizzare con il proprio malessere, di riconoscerlo e di conseguenza di averne meno timore. In questa prima fase non c’è soluzione né consolazione da ricercare ma attraverso il sentire, le lacrime e il non senso, la persona è accompagnata gradualmente ad avvicinare il disagio per viverlo come realtà del presente, a riconoscere il flusso dei propri pensieri negativi, a prendere contatto con la corporeità immergendosi nelle sensazioni di oppressione e pesantezza. Un po’ alla volta egli entra in un tempo sospeso, un momento di vuoto dove inizia il processo di elaborazione del lutto, l’aggancio con una realtà non più solo passiva ma in cui trova la forza per una nuova responsabilizzazione.
E’ questo il momento in cui il paziente può decidere di affrontare il processo terapeutico attraverso la rivisitazione dei vissuti corporei. Egli ha bloccato e irrigidito le sue modalità difensive ed è importante che, chi lo accompagna in questo delicato percorso, gli dia il tempo di entrare nel dolore senza forzature e di divenire consapevole delle proprie strategie difensive perché per abbandonarle si troverà per un certo periodo vulnerabile e impaurito.
Un passaggio importante è anche l’espressione dell’aggressività repressa o passiva che la persona non osa esprimere per difendere la propria immagine, con il risultato di una grave perdita di energia vitale. La rabbia stimola la differenziazione e induce il coraggio per uscire dalla rassegnazione ed interpretare in maniera nuova e individualizzata ciò che l’esistenza offre, riconoscendo che questa vita è l’unica dimensione possibile in cui ricercare la propria realizzazione, creare relazioni e cogliere opportunità.