La morte e il morire

Margherita Biavati

La morte è un istante, un punto di rottura, il morire è un processo
che ci accompagna per tutta l’esistenza fino alla morte.

Profondamente radicato negli esseri viventi è l’istinto di sopravvivenza, che relega il momento della morte il più lontano possibile, spinge alla soddisfazione dei bisogni primari (cibo, riparo, riproduzione), e nell’uomo anche alla soddisfazione dei bisogni spirituali come la creatività, l’arte, la scienza…

La ricerca, il progresso scientifico e farmacologico, le maggiori competenze terapeutiche e tecnologiche, che rendono guaribili malattie un tempo mortali, hanno regalato agli esseri umani un sostanziale miglioramento della salute e posticipato il momento della morte. Ma a questa condizione favorevole per l’allungamento del tempo della vita di parecchi decenni, si accompagna maggiore incertezza e sofferenza rispetto ai tempi del morire: sempre più persone sono tenute in vita da macchine che sostituiscono organi vitali o da farmaci che pur salvando la vita, non hanno il potere di restituire alla persona salute e autonomia. La morte, respinta in un tempo lontano e sconosciuto, diviene un concetto che mette ancora più paura per l’angoscia che provoca, tanto da immaginarla come evento riguardante solo gli altri e mai noi stessi.

La nostra cultura non ci stimola a penetrare le tematiche della morte, ad addentrarci nel sentimento del dolore e della paura, al contrario ci suggerisce di vivere senza pensare ad essa come fossimo immortali, lasciando questo argomento sullo sfondo, quasi fosse sconveniente e “tabù”. Ma la strategia dell’evitamento non si rivela molto proficua; infatti tanto più evitiamo le emozioni, qualsiasi siano, tanto più quando ci assalgono, siamo in loro balia e dobbiamo usare ogni nostra energia per de-sensibilizzarci e creare un muro sempre più spesso. Convinti che vi sia una “normalità” da raggiungere più importante dei desideri e del sentire di ognuno, cerchiamo di controllare le nostre emozioni, compreso l’amore e la gioia, con l’illusione di poter governare così la nostra vita, la nostra strada. La saggezza ci dice che, solo chi ha vissuto molte esperienze, ha sbagliato, ha sbattuto la testa, nella vita diventa forte ed in grado di camminare sulle proprie gambe e di scegliere dove vuole andare. Il saper affrontare con coraggio la vita è un qualcosa che si acquisisce solo vivendo e imparando a reggere tanto le avversità esterne quanto i subbugli emozionali interni. Quante volte invece, per non lasciarci sommergere e destabilizzare, cerchiamo di controllare l’amore o diffidiamo della gioia inaspettata che ci assale, non accorgendoci che siccome i sentimenti umani sono per loro natura liberi e incontrollabili, l’unica possibilità per noi è conoscerli e lasciargli spazio nella nostra anima. Più una persona evita l’esperienza, più si troverà impreparata ad affrontare l’imprevisto: per esempio una persona che lotta disperatamente per non fare emergere la propria aggressività, improvvisamente potrà sentirsi non più padrone di se stesso, in preda al panico e portato a fare gesti inconsulti. Se la strada migliore per saper vivere è “andare dentro”, ci chiediamo: quanto e come ognuno di noi si accosta e lascia spazio alle emozioni nella propria vita e quanto invece cerca di soffocarle?

La convinzione che induce all’evitamento risulta inconcepibile ai popoli orientali per i quali è importante preparare gli uomini al momento della morte durante tutto il corso della vita. Essi considerano il tempo del vivere un transito, costellato da “tante piccole morti e rinascite” che stimolano negli uomini la capacità ad accettare gli inevitabili cambiamenti esterni ed interni a sé. Dare alla vita un senso di continua trasformazione prepara l’uomo in modo profondo ed efficace tale per cui, avanzando negli anni, può continuare a vivere con dignità nonostante tutto diventi sempre più incerto, fragile, insicuro. Gli antichi celebravano coi riti sacri i cambiamenti di “status” della vita di ogni persona che imparava ad associare la perdita di un qualcosa con la conquista di qualcos’altro: per esempio per diventare uomo si dava addio all’innocenza irresponsabile della fanciullezza, ma contestualmente si riceveva maggiore responsabilità e potere. In quest’ottica la morte era vista come l’ultima delle trasformazioni conosciute e veniva celebrata almeno quanto la nascita; gli anziani, cui era assegnato il ruolo di depositari del sapere e del saper vivere, venivano trattati con devozione e rispetto. Nelle società in cui l’aspettativa di vita è limitata, la sopravvivenza nella prima infanzia è un dono, ed ogni giorno si lotta per nutrirsi e proteggersi, l’idea della morte accompagna la quotidianità e viene condivisa dall’intera comunità, compresi i bambini.

Nella nostra società l’allungamento del tempo di vita, il mito dell’efficienza e il modello del consumismo, hanno trasformato la funzione sociale degli anziani: il loro ruolo è diventato terribilmente umiliante perché considerato inutile. L’anziano, lungi dal continuare ad essere un punto riferimento per i ragazzi o gli adulti, da depositario del sapere diviene, suo malgrado, un “problema”; portatore di un corpo in decadenza, egli si sente sempre più solo, emarginato e spaventato in un mondo in cui non ha più chance e di cui gli sfugge il significato. E se giunge alla condizione di non autosufficienza le problematiche si aggravano; la famiglia non è in grado di sostenerne il peso ed entrano in ballo i servizi sociali e sanitari. Da persona diviene paziente, colui che soffre e ha bisogno di cure e il suo ruolo è permettere agli altri, volente o nolente, di curarlo. Fino a pochi anni fa la scelta che sembrava obbligata era l’ospedalizzazione o l’asilo in case di cura specifiche; ora si sta diffondendo l’uso della domiciliazione che consente di essere curati in casa propria. Le persone diventano pazienti e i familiari e gli assistenti i “care givers” che si prendono cura di loro, li aiutano a mantenersi in vita e ad alleviargli il dolore. Simile destino è riservato alle persone sofferenti di gravi disabilità che prevedono lunghe o lunghissime degenze prima di morire.

E’ un cambiamento inquietante che ha aperto in questi ultimi decenni il dibattito sull’eutanasia, sul diritto alla qualità della vita, sostituito in molti casi dalla volontà di allungare la quantità di vita e di allontanare il più possibile il punto di rottura dell’esistenza. Il dibattito sulla qualità della vita porta ad abbattere il “tabù” riguardo alla morte, per affrontarla invece con la necessaria “resa”. Tante sono le domande, poche e incerte le riposte: la necessità di mantenere la vita ad ogni costo per la persona è un’opportunità o una condanna? Vi è un chiaro confine tra cura e accanimento terapeutico? Dove si situa il momento in cui bisogna arrendersi all’inevitabile? A che livello entra in queste tematiche il libero arbitrio? Sono comprensibili le posizioni più contrapposte: sia che la morte venga vista come concetto ineluttabile, con cui non si può negoziare, sia che l’uomo abbia un impulso irrefrenabile a volerla sconfiggere. Ogni essere umano attraverso il suo credo cerca di far fronte all’“angoscia del nulla”; tutte le religioni hanno elaborato e custodito la propria risposta, la propria verità, ma gli interrogativi rimangono aperti, e lo saranno presumibilmente per sempre. Che la morte si intenda come fine ultima o come trapasso, essa è dolorosa sia per chi la affronta, sia per chi rimane senza la persona amata.

La limitatezza e fragilità del nostro corpo ci ricordano continuamente che non siamo onnipotenti e che la vita stessa nel suo procedere è un lento percorso verso la morte; ciononostante seguitiamo a percepire la morte con un dolore incommensurabile, un vuoto angosciante e privo di significato. Sperimentiamo il lutto ogni volta che dobbiamo lasciare andare qualcosa o diciamo addio a qualcuno: vi sono dei lutti il cui costo emotivo è molto alto, non solo per il dolore della perdita ma anche per la sensazione di vuoto e la sensazione di impotenza, vi sono dei lutti talmente drammatici e incomprensibili per i quali è inimmaginabile il superamento del dolore; vi sono lutti che forgiano l’identità e l’autonomia e rappresentano momenti decisivi attraverso i quali è possibile ricominciare una vita con nuovi significati. Se ognuno da bambino poi da adolescente e da giovane fosse accompagnato con empatia e amore nel processo di separazione, distacco e individuazione, da adulto potrebbe affrontare le trasformazioni della vita con maggior coraggio, attivando le proprie qualità e risorse creative per affrontare le perdite e il dolore.

Le basi da cui partire per affrontare il tema della morte con maggiore serenità e poter stare vicino empaticamente a persone sommerse dallo sconforto per il dolore e l’approssimarsi della propria morte o di un loro caro sono: 1) Dare alla morte il valore che merita, prendendone coscienza e sciogliendo noi stessi il “tabù” della morte. 2) Trovare una maniera empatica di comunicare, che la Kubler-Ross chiama “il silenzio che va oltre le parole”.

L’empatia è la capacità di immedesimarsi nel mondo personale dell’altro e sentire il suo vissuto, senza dimenticare il proprio. Una qualità particolarmente difficile da sviluppare soprattutto in contesti così dolorosi, in cui è facile ricadere in una delle due polarità comportamentali della “identificazione” e del “distacco” che sono anche le principali cause del burn-out degli operatori. Nella identificazione la persona (il familiare o l’operatore) prende su di sé l’emozione, rabbia o dolore che sia, del paziente a tal punto da non distinguersi più dall’altro ed entrare nel vortice dell’impotenza per lo sforzo di voler aiutare, non accettando per primo i limiti della situazione. Nel distacco si convogliano tutte le energie per fare muro e non sentire, ma la repressione dei propri sentimenti è una operazione rischiosa perché porta la persona a non saper reggere né convivere con i propri sentimenti.

Sciogliere il tabù della morte dentro noi stessi significa arrivare ad elaborarlo al punto da poter stare in una dimensione di resa e di impotenza, consapevoli che tutto finisce ma ogni momento è prezioso; Il tempo presente è più importante delle proiezioni per il futuro, ma senza speranze né sogni non si sa come vivere; ognuno ha in sé le risorse per far fronte al proprio dolore. Come aiutare una persona a vivere più serenamente il tempo che le resta nonostante che soffre e sa che soffrirà? Vi sono diverse specifiche risposte ma tutte confluiscono ad un punto fondamentale: saper essere in contatto empaticamente con l’altro che permette di: 1) Parlare della morte senza essere evasivi, intuendo le richieste al di là delle parole; 2) Mantenere il senso di rispetto e di dignità verso l’altro trattandolo come persona e non come malato in fin di vita; 3) Considerare la morte non come un fallimento, ma come importante momento di vita in cui avvengono gli ultimi scambi, le ultime volontà, in cui si fa il riepilogo di ciò che è stato, e in cui più ci si avvicina al sentimento della “resa” più si è sereni; 4) Affrontare le tematiche chieste dalla persona, compreso lo stato di salute, perché ognuno sa dentro di sé cosa sta accadendo e dà il segnale di ciò che desidera parlare o tacere.

Una distinzione fondamentale è fra “aiutare” e ”aiutare ad aiutarsi”. L’aiuto presuppone che una persona sa meglio dell’altro quello che è bene per l’altro: è un atteggiamento saccente e autoritario anche se mascherato e può provocare una reazione aggressiva o un atteggiamento di remissione e dipendenza, aumentando la sofferenza e il senso di solitudine. Aiutare ad aiutarsi invece porta l’altro ad operare scelte libere e auto-dirette: è l’atteggiamento di chi non detiene alcun potere o sapere ma, assumendo una posizione di ascolto empatico, può facilitare l’altro a scoprire cosa desidera (molto più difficile ascoltare che parlare), o cercando di capire le sue motivazioni e convinzioni può farlo sentire meno solo. Quando ci si pone di fronte alla persona con un atteggiamento di parità dal punto di vista umano, è possibile che essa si senta stimolata a parlare di sé, ed è probabile che avvenga il fenomeno della “fascinazione”. Sentirsi affascinati da una persona è un qualcosa di assolutamente raro che non dipende solo dalla persona guardata ma anche e soprattutto da chi la guarda, dalla sua curiosità, profondità e apertura di cuore. Se si ascolta una persona restandone affascinati il potere benefico dell’esperienza è fortissimo per entrambi: per l’operatore che sente reciprocità e gratificazione nel contatto con l’altro; per la persona che sentendo di “affascinare” sentirà aumentare la sua autostima e la voglia di comunicare. Il contatto fra le due persone diventa uno scambio vivo che genera un’energia capace di abbattere i muri che dividono le persone da se stesse e dal mondo. Il morente e in genere le persone che gli sono accanto attraversano differenti fasi importanti da conoscere per orientarsi nell’aiuto: 1) Chiusura, Rifiuto e Isolamento; 2) Rabbia e Dolore; 3) Patteggiamento, che richiama il miracolo; 4) Depressione e perdita di interesse per il mondo; 5) Accettazione in cui la persona entra in contatto esclusivo con la realtà presente. E’ importante che l’accettazione non solo non sia ostacolata da parenti ed amici, ma sia appresa da loro e dagli operatori per rispettare il morente nello stadio in cui si trova, per il tempo che gli è necessario.

Spesso, più della paura della morte, le persone che soffrono e sanno di dover morire, hanno paura di vivere: parlare di questo e sentirsi capiti può essere un gran sollievo. La paura del dolore, dell’ignoto, della solitudine, del giudizio, di essere causa del proprio male; di dipendere dagli altri, del futuro delle persone care, del loro giudizio, della loro sofferenza, di essere in balia degli eventi e non poter scegliere né reagire. Rimanendo in contatto con la persona sofferente si scopre che molti bisogni sono fisici, corporei, molti altri sono di ordine psichico come il desiderio di parlare con qualcuno che non sminuisca gli eventi e non tenti di deviare il discorso, ma sappia essere presente e assente quanto basta. La persona che soffre è un essere umano come ogni altro e nella relazione d’aiuto ha bisogno di chiedere ma anche di dare, di sentirsi in contatto con l’altro ma anche da solo in contatto con se stesso. Rispettare questa lontananza-vicinanza è una delle qualità per conquistare la fiducia, che salva da una troppa proiettività e identificazione l’operatore stesso. L’identificazione la possiamo anche definire come quel meccanismo per cui una persona è talmente coinvolta nei sentimenti dell’altro da non sentire più se stesso, da non avere più lucidità, da non poter più in fin dei conti essere d’aiuto.

Il sostegno ai familiari è per un operatore forse ancora più complicato, ma le incomprensioni e le tensioni si ingigantiscono se non si assume un atteggiamento empatico. Il processo del lutto per la perdita di una persona cara include, oltre al sentimento del dolore, anche rabbia e sollievo, ma essendo sentimenti difficili da ammettere vengono mascherati e repressi, prolungando il dolore. Evidentemente i contesti familiari non sono tutti uguali, ma il sistema famiglia ha dinamiche per lo più intricate, incongruenti, inconsapevoli e per l’operatore entrare in sintonia, anziché in collisione, con il sistema famiglia, è difficile. Importante è ricordare che la relazione non è mai fra una persona e un gruppo ma fra persone singole e diverse fra loro, anche se facenti parte di un sistema o gruppo; questo rende più semplice il contatto e fa calare l’ansia. A volte i parenti provano gratitudine ma allo stesso tempo rabbia, rivalsa e pretesa nei confronti dall’operatore; spesso nelle situazioni gravi le dinamiche sotterranee del nucleo familiare vengono a galla e si rafforzano, altre volte le persone si alleano per far fronte alla situazione; a volte i familiari si sentono in colpa per dover chiedere aiuto, a volte sentono insofferenza e desiderio di allontanare il malato, ma difficilmente riescono ad ammettere tutta questa gamma di sentimenti.

Stare accanto ad una persona sofferente e ai suoi familiari significa entrare in contatto con una sensibilità esasperata, con bisogni urgenti e contraddittori; i malati a volte soffocati dall’iperprotettività e a volte trattati con freddezza e distacco, si sentono in genere molto soli. Per entrambi, operatore e paziente, anche se in maniera diversa, l’esperienza di contatto diventa un nutrimento profondo dell’anima. Per il paziente l’ascolto si trasforma in consolazione e capacità di auto-sostegno, ma entrambi sono nutriti dall’essere profondamente immersi nel processo umano di reciprocità. Rare sono nella vita le soddisfazioni così profonde e creative come quella del contatto. Tale ricchezza di scambi, orientata al benessere, può verificarsi pienamente solo se il terapeuta non trascura se stesso, la sua crescita personale, la fertilità della sua mente, la cura della propria sensibilità.bFondamentale per gli operatori è avere situazioni in cui possano condividere il proprio vissuto ed essere aiutati alla reciprocità dell’ascolto empatico per crescere e arricchirsi interiormente, e non rischiare di farsi prosciugare emotivamente e fisicamente.