La consapevolezza di per sé può essere curativa. Dato che con una piena consapevolezza si diventa auto-consapevoli dell’autoregolazione dell’organismo, si può lasciare che l’organismo prenda in mano la situazione senza interferire, senza interrompere: della saggezza dell’organismo ci si può fidare” – F. S. Perls
“In principio era il teatro. Poi il laboratorio. Adesso è il luogo dove spero di poter essere fedele a me stesso. È un luogo in cui mi aspetto che ciascuno dei miei compagni possa essere fedele a sé stesso. È un luogo in cui l’atto, la testimonianza dati da un essere umano saranno concreti e corporei. Dove nessuno pensa di dominare il gesto per esprimere qualcosa. Dove si vuole essere scoperto, svelato, nudo; sincero col corpo e col sangue, con l’intera natura umana, con tutto ciò che potete chiamare a piacere spirito, anima, psiche, memoria e simili. Ma sempre in modo palpabile. Questo incontro, andarsi incontro, essere disarmati, non avere paura uno dell’altro in nulla. Ecco cosa vorrei fosse il teatro laboratorio. E poco importa che lo chiami laboratorio, poco importa che si continui a chiamarlo teatro. Un tale luogo è necessario. Se il teatro non esistesse, si troverebbe un altro pretesto”. – J. Grotowski
La teatroterapia come arteterapia
La teatroterapia si configura come una delle artiterapie, regolamentate in Italia dalla norma UNI 11592:2015. È proprio la norma a riportare la definizione di tali discipline, che vengono definite come professioni non-sanitarie aventi come obiettivo il benessere dell’individuo attraverso l’utilizzo delle forme artistiche: in questo senso il termine “terapia” non è inteso in un’accezione strettamente sanitaria, bensì in riferimento alla nozione estensiva di “salute” così come formulata dall’OMS: “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”.
La parola terapia ha vissuto un’evoluzione determinante negli ultimi decenni, raggiungendo “un’accezione che non si limita esclusivamente alla sfera medica, ma che si basa su una concezione psicosomatica della salute nonché di rinascita dei valori umani” nelle parole di W. Orioli, che poi continua descrivendo la teatroterapia come un’attività che “implica l’educazione alla sensibilità, alla percezione del proprio corpo e agisce attraverso la rappresentazione di personaggi extraquotidiani, principalmente improvvisati (…)”.
La teatroterapia ha come obiettivo non un risultato prefissato in termini di prodotto (ad esempio, la messa in scena di uno spettacolo), ma lo sviluppo di un processo pedagogico tra il conduttore, il gruppo e i singoli partecipanti, affinché ognuno di essi possa acquisire maggiore consapevolezza del proprio corpo, delle emozioni e dei pensieri in un’ottica di miglioramento della propria vita. Il percorso di ricerca attraversa poi il campo di conoscenza dei propri atteggiamenti ripetitivi per giungere alla sperimentazione di nuove possibilità di azione, facendo della teatroterapia una forma di apprendimento maieutico, simile in questo senso al metodo socratico descritto da Platone in cui il maestro non consegna all’allievo la sua verità, ma piuttosto lo aiuta a “partorire sé stesso” (μαιευτική, “ostetricia”).
L’approccio è olistico poiché si considera l’essere umano non scomponibile in parti – corpo e mente – ma come un sistema complesso in cui ogni funzione influenza l’altra. La visione olistica, che nel senso comune a volte viene considerata priva di valenza empirica e scientifica, è invece applicata secondo la visione del neuroscienziato A. R. Damasio per il quale la mente agisce con e dentro l’organismo per favorire le sue funzioni biologiche in una reciproca influenza e collaborazione volta alla salute e al benessere di ogni individuo.
La teatroterapia può essere applicata in numerosi contesti, poiché utilizza tecniche che possono adatte o adattabili a utenti con caratteristiche anche molto diverse: dalla libera espressione corporea dei bambini alla consapevolezza dei cambiamenti corporei in pubertà e adolescenza, fino all’utilizzo di modalità più sottili con anziani e disabili fisici e psichici. Un altro ambito in cui può avere buona valenza è quello dell’integrazione linguistica e culturale, avendo come linguaggio primario quello del corpo. Le attività si svolgono in gruppo e questo amplia le possibilità di lavoro poiché il gruppo facilita una comunicazione efficace e autentica, essendo ogni partecipante testimone e sostegno per gli altri (funzione specchio). Inoltre, la messa in gioco di ognuno favorisce lo sviluppo della capacità empatica di tutti (vedersi nell’altro). Infine, la sincerità espressiva dovuta all’impegno di ogni partecipante ad esprimersi al meglio delle proprie capacità crea un’atmosfera di condivisione umana dal forte impatto etico. Prendiamo in prestito le parole del teologo Vito Mancuso sull’empatia come “rottura della prigione dell’io, che non avviene cognitivamente bensì emotivamente. All’origine di tale rottura non c’è una conoscenza oggettiva, la quale semmai rafforza il senso dell’io, la torre dell’io, e quindi la sua solitudine; c’è invece una partecipazione emotiva e sentimentale al patire e al gioire degli altri”.
Dal teatro al teatroterapia
L’espressione corporea finalizzata a “mettere in scena” per trasmettere un messaggio è probabilmente la più antica forma d’arte sviluppata dagli esseri umani. Tuttavia, mentre abbiamo prova delle pitture rupestri come forma di testimonianza e narrazione destinata alla collettività, non abbiamo tracce documentali di un teatro primordiale, essendo il teatro per sua natura un’esperienza che si può vivere solo nella presenza fisica. Senza addentrarci troppo in supposizioni legate allo sviluppo delle funzioni cerebrali adattive nella nostra specie, possiamo tuttavia immaginare che l’embrione del teatro possa situarsi nel lungo periodo di acquisizione da parte degli esseri umani della capacità di decifrare i simboli e di rappresentare a livello mentale qualcosa che non sta realmente accadendo come se stesse accadendo proprio in quel momento. In Occidente abbiamo le prime certezze dell’importanza collettiva del teatro nella cultura greca antica, in particolare quella ateniese, dove esso ricopriva funzioni sociali complesse: nella tragedia, ad esempio, attraverso la rappresentazione di un mito – una narrazione che era già patrimonio comune dei cittadini della polis – si mettevano in scena i sentimenti più profondi della natura umana. Conflitti etici e morali, paure, senso di impotenza, erano rappresentati in un tempo fuori dal tempo dove il protagonista, spesso cieco di fronte al suo destino, interloquiva con il coro (voce della coscienza o volere degli dèi) e interagiva con gli altri personaggi e gli antagonisti in un crescendo emotivo che portava gli spettatori alla catarsi (κάθαρσις, “purificazione”). Secondo Aristotele lo scopo principale della tragedia è proprio in questa immersione del pubblico nel vissuto scenico traumatico che porta alla purificazione dalla propria passione dominante ogni individuo che vi assiste e che, attraverso questo coinvolgimento, può avere un’osservazione di sé più consapevole.
È sempre il mondo classico a trasmetterci i primi testi di un’altra forma di rappresentazione teatrale, la commedia, che aveva scopi differenti, tra i quali forse il principale era mostrare l’aspetto ridicolo di chi è (o si crede) superiore agli altri. Spesso le commedie nascondevano un’allegoria della vita quotidiana della città e diventavano anche vere e proprie satire politiche e intellettuali. Possiamo senza dubbio sostenere che nel teatro classico entrambe queste forme d’arte avevano uno scopo pedagogico e formativo per la comunità.
Per arrivare al momento storico in cui il teatro è stato usato intenzionalmente come terapia bisogna attendere gli inizi del XIX secolo, quando l’abate G.M. Linguiti, direttore dell’ospedale di Aversa, tentò con successo di applicarne certe forme nella cura degli alienati. Il suo scopo era intervenire a livello morale sui malati, in linea col pensiero di una psichiatria emergente figlia dell’Illuminismo e fiduciosa che ogni uomo potesse essere migliorato. Linguiti agiva in modo da far mettere in scena al paziente un personaggio che fosse il contrario della passione o fissazione di cui era portatore, per fargli “vivere l’opposto” e, quindi, liberarlo. In realtà la buona intuizione dell’abate non ebbe particolare seguito, anche perché cominciava a diffondersi tra gli esperti di malattie mentali la posizione organicista, che sosteneva l’origine esclusivamente biologica delle malattie stesse: in quest’ottica, la relazione umana con l’alienato non avrebbe prodotto alcun progresso di rilievo nella cura.
Il Metodo Stanislavskij
– È questa l’ispirazione?
– Non so. Chiedilo agli psicologi. La scienza non è affar mio. Io sono un uomo pratico e posso solo spiegarvi come mi sento io quando creo.
(K. S. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore su sé stesso)
Dal mondo psicologico e psichiatrico non arrivarono impulsi degni di nota legati al teatro come terapia fino al XX secolo. Fu, invece, dalla ricerca teatrale che giunse un contributo inatteso con l’opera di K. S. Stanislavskij, attore e regista russo attivo ai primi del ‘900, inventore del Metodo che da lui prende il nome e che si basa sull’approfondimento psicologico del personaggio e sulle assonanze tra il suo mondo interno e quello dell’attore, affinché quest’ultimo riesca a far “vivere” in scena il personaggio stesso attraverso l’espressione piena della propria umana intimità. Il mondo occidentale conosceva dai tempi di Shakespeare l’innovazione della psicologia del personaggio, ma è Stanislavskij a introdurre per primo il concetto di psicologia dell’attore. In scena non c’è più un personaggio-contenitore abitato dall’attore recitante, ma due esseri umani in unico corpo, in una fusione totale concretizzata attraverso il continuo e progressivo immergersi dell’attore nel personaggio fin dal primo giorno di preparazione. Il lavoro dell’attore su sé stesso ha cambiato il mondo del teatro portando il focus sul lavoro interiore dell’essere umano volto ad ampliare la consapevolezza di sé a livello emotivo e corporeo, unico modo per portare in scena la verità e coinvolgere il pubblico nel profondo.
Jacob Levi Moreno e lo Psicodramma
“Io inizio da dove tu finisci. Tu incontri le persone nello scenario artificiale del tuo studio, mentre io le incontro per strada e nelle loro case. Tu analizzi i loro sogni, mentre io cerco di dare loro il coraggio di sognare ancora”.
(J. L. Moreno a S. Freud, 1912)
In parallelo al lavoro del regista russo si svolgeva quello di J. L. Moreno, psichiatra di origini rumene, che possiamo considerare il vero padre fondatore dell’uso del teatro a scopi terapeutici. Egli operava inizialmente in situazioni di emarginazione sociale, dove si rese conto dell’efficacia del lavoro di gruppo sia nella rappresentazione teatrale dei conflitti interni di ogni partecipante, sia attraverso l’assegnazione di ruoli extra-ordinari. Inventò una tecnica nuova, lo psicodramma, in cui un paziente, sotto la guida del terapeuta e con il coinvolgimento degli altri partecipanti, mette in scena una problematica personale, antica o recente, con lo scopo di far emergere il vissuto emotivo non espresso nell’accaduto e non emerso nel ricordo dello stesso, per elaborarlo e trasformarlo in una risposta corporea e verbale congrua. Lo psicodramma è una vera e propria ricostruzione in gruppo di un momento di vita vissuta, un frame personale che viene rappresentato dagli altri (gli Io ausiliari) per ampliare la visuale del partecipante sotto la guida del conduttore.
I caposaldi della tecnica di Moreno sono: il ruolo, la relazione, la spontaneità e la creatività. Sul tema del ruolo, nel corso della sua ricerca Moreno ebbe modo di distinguere tre possibilità di lavoro, differenti dallo psicodramma classico: il role taking, ovvero la consegna da parte del terapeuta di un ruolo fisso e predefinito senza margini di libertà; il role playing dove il ruolo è più “aperto”; il role creating che lascia totale libertà di improvvisazione.
Il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski
“I nostri sforzi costanti sono tesi a dissimulare la verità che ci riguarda, non solo di fronte al mondo, ma anche di fronte a noi stessi: ed ecco che qui, invece, siamo invitati a fermarci e analizzarci”.
J. Grotowski, Per un teatro povero
Dopo Stanislavskij il teatro ha vissuto un’azione di rinnovamento che ha rotto definitivamente lo schema dello spettacolo ottocentesco, basato sulla recitazione enfatica dell’attore e sul rispetto di certe regole rigide e canoniche, che portavano il dramma a un’atmosfera irreale perché poco vicina a quella che è la quotidianità dei gesti, del sentire e delle reazioni umane. In questo quadro si inserisce come una delle figure di riferimento, sia per il rigore delle sue ricerche che per la coerenza della sua avventura teatrale e personale, Jerzy Grotowski, che ha messo in crisi il teatro in tutti i suoi elementi ritenuti fino ad allora costitutivi: il regista, l’attore, lo spettatore, il testo, la recitazione, l’edificio. Ai fini della nostra trattazione è opportuno approfondire i primi due. La centralità data dal regista polacco alla potenza dell’attore-essere umano lo ha reso per tutta la vita un ricercatore, ma non di quella ricerca propria del fare scientifico: “il termine ricerca sta ad indicare che noi ci dedichiamo alla nostra professione in un atteggiamento simile a quello dell’intagliatore medievale che cercava di ritrovare nel suo pezzo di legno una forma pre-esistente. Noi non lavoriamo come gli artisti o gli scienziati, ma piuttosto come il calzolaio che cerca nella scarpa il punto giusto dove poter conficcare il chiodo”. Il suo Teatr Laboratorium ha come fulcro il lavoro sul corpo dell’attore nella fatica di liberarlo dalle costrizioni culturali e dagli automatismi caratteriali; apprendimento è per lui non già aggiunta di tecniche, ma il contrario, ovvero saper togliere ogni cosa superflua: “per anni si lavora e si vuole imparare di più, per acquisire maggiori abilità, ma alla fine non si deve imparare, ma disimparare, non sapere come fare, ma come non fare, e fronteggiare sempre questo fare, rischiare la sconfitta totale; non una sconfitta agli occhi altrui, che non è importante, ma la sconfitta di un dono mancato, cioè un fallimentare incontro con noi stessi”. L’operazione del regista-calzolaio è chirurgica e drastica perché punta a demolire la statua quotidiana dell’Ego, sotto la quale si celano le parti autentiche dell’attore: solo dopo averle incarnate egli può rivelarle al pubblico facendogli “sentire la verità”, rendendolo libero di lasciarsi contagiare e disposto ad avviare, quindi, un processo interno simile.
Grotowski è il primo a condurre uno studio approfondito sulle caratteristiche, la fenomenologia e il significato della recitazione, nonché sulla natura e sulla scienza dei processi mentali, fisici ed emotivi ad essa connessa. L’onestà, l’intensità e la precisione della sua opera ci hanno lasciato una grande eredità, quella di ripensare il teatro come vita, un percorso di impegno per raggiungere la dimensione più profonda dell’uomo. Sull’onda del filosofo dell’antichità Diogene, il regista Grotowski si fa compenetrare dal suo “Cerco l’Uomo” al punto da scegliere – praticamente all’apice della sua carriera – di abbandonare la scena per lavorare solo con persone interessate alla ricerca personale attraverso le sue tecniche:
“Non è il teatro che è necessario, ma assolutamente qualcos’altro. Superare le frontiere tra me e te: arrivare ad incontrarti per non perderti più tra la folla, né tra le parole, né tra le dichiarazioni, né tra idee graziosamente precisate, rinunciare alla paura ed alla vergogna alle quali mi costringono i tuoi occhi… appena gli sono accessibile tutto intero. Non nascondermi più, essere quello che sono. Almeno qualche minuto, dieci minuti, venti minuti, un’ora. Trovare un luogo dove tale essere in comunione sia possibile”
La drammaterapia di R. J. Landy
Nei primi anni ’90 del secolo scorso viene sistematizzato da R. J. Landy un altro modello di lavoro attraverso il teatro nella relazione d’aiuto: la drammaterapia. I ruoli indagati sono legati agli archetipi e il drammaterapeuta aiuta i clienti ad incrementarli per non rimanere legati ad un ruolo rigido. Una dimensione importante, in drammaterapia, è il coinvolgimento rispetto al ruolo, ossia il grado di intensità o distanza nel giocarlo: il partecipante è, infatti, invitato a entrare e uscire dal ruolo per sentirlo e osservarsi, riflettendo su quanto accade. Questa forma di arteterapia prevede di norma l’utilizzo di materiali come maschere, marionette e oggetti rappresentativi per favorire la “giusta distanza” del partecipante dal personaggio, in modo da poter assumere ruoli differenti e imparare a muoversi da uno all’altro a seconda della situazione di vita.
La Gestalt
La Psicoterapia della Gestalt venne ideata dallo psicanalista tedesco F. S. Perls nella prima metà del secolo scorso, il quale si ispirò almeno in parte alla Psicologia della Gestalt, teorizzata nei decenni precedenti e fondata sulla centralità della percezione e dell’esperienza, i due pilastri sulla base dei quali gli esseri viventi apprendono, decodificano e modificano la realtà.
I fondamenti della Gestalt applicabili alla teatroterapia sono:
- L’importanza di “stare” nel qui e ora, un’arte che si sviluppa nella continua attenzione alla reale esperienza vissuta nel presente, in ogni istante dell’esistenza, attraverso pratiche di consapevolezza corporea ed emotiva.
- La ricerca di una piena consapevolezza di sé (dei propri gesti, della respirazione, delle sensazioni corporee, delle emozioni, della voce e delle proprie espressioni facciali, dei pensieri, ecc…) per diventare responsabili dell’autoregolazione del proprio organismo e, quindi, liberi di scegliere.
- Il corpo come strumento privilegiato di conoscenza, da cui deriva un approccio fortemente esperienziale che invita la persona a sperimentare quanto più possibile di sé stessa.
- Il cambiamento come costante dell’Universo: l’uomo, per mantenere il benessere nel proprio ambiente esteriore ed interiore, adotta un processo permanente di adattamento creativo.
- Tutto ciò che esiste, compresi noi esseri umani, è in costante relazione con l’ambiente circostante. Non si può aiutare una persona senza tenere conto dell’ambiente psicologico, fisico ed emotivo in cui vive. Essendo la relazione così centrale, la Gestalt interviene sulle interruzioni del processo di contatto tra l’individuo e il suo ambiente in una visione di campo.
- L’importanza dell’autenticità per realizzare sé stessi: se per proteggere la nostra immagine recitiamo continuamente dei ruoli, il messaggio implicito verso noi stessi è che non abbiamo il diritto di esistere così come siamo. Il primo passo verso la salute è accettarci per quel che siamo.
- Ogni persona è esperta di sé stessa più di chiunque altro. In questo senso il professionista ha il compito di sostenere e aiutare la persona a trovare la propria strada, non di guidarla. Questo concetto include anche l’idea che non vi sia una normalità, un modello o una via giusta da perseguire. La realizzazione personale è unica per ciascuno.
L’influenza del teatro e del lavoro di Moreno è fin da subito evidente nelle tecniche della Gestalt, tra cui le più note e che possiamo considerare le più “teatrali” sono quelle rivolte alla polarizzazione e integrazione delle parti, ovvero la sedia calda (o vuota) e il lavoro sul sogno.
La sedia calda è uno strumento utile per favorire il contatto e il dialogo fra personaggi o parti di sé, quindi per sviluppare l’empatia. Il paziente seduto ha di fronte a sé una seggiola vuota, sulla quale immagina di porre una parte di sé o una persona della propria vita reale. Egli si sposta, guidato dal terapeuta, da una sedia all’altra dando corpo, emozioni e parole ad ogni interlocutore e facendogli esprimere bisogni e desideri profondi, paure, pensieri, dichiarando le proprie intenzioni in uno scambio alla pari in cui nessuno può nascondersi o barare. È il luogo dove incontrare la propria diversità, l’altro da sé, qualcosa di strano o difficile da accettare. La tecnica della sedia vuota è un’esperienza di contatto e dà l’opportunità di poter parlare anche con chi non è fisicamente presente, ma è vivo nell’anima come rappresentazione interna.
L’elaborazione del vissuto onirico in Gestalt è originale e innovativo, essendo il sogno visto come un’esperienza emotivo-corporea a tutti gli effetti, anche se (o proprio perché) fatta in stato di incoscienza. Il sogno è uno dei linguaggi usati dal corpo per farci notare qualcosa che ci sfugge in termini di sensazioni o emozioni, che si è trascurato nella veglia e, invece, è importante per il nostro benessere: un messaggio nella bottiglia che può rivelarci delle indicazioni importanti per la nostra vita. Ogni personaggio (o meglio, ogni parte) del sogno parla di noi, di nostre istanze interne, alcune in figura, cioè più conosciute, e altre sullo sfondo, quindi poco riconoscibili o addirittura ignote. Il sogno può essere elaborato in seduta in diversi modi, ma una delle tecniche più interessanti è la ricostruzione fatta in gruppo: prendendo spunto dallo psicodramma, lo si mette in scena dando ruoli ai partecipanti, che come Io ausiliari moreniani si prestano a “sentire” cosa accade in relazione agli altri.
La teatroterapia gestaltica
In questo quadro teorico, da cui abbiamo dovuto tralasciare le importantissime influenze filosofiche della corrente fenomenologica ed esistenziale, nonché l’illuminante riflessione di M. Buber sulla relazione (che ha fortissime risonanze con l’approccio di Grotowski e meriterebbe una trattazione a parte), vediamo come si sviluppa il lavoro teatroterapeutico con le tecniche gestaltiche.
Gli incontri avvengono in un setting specifico: il luogo non deve essere necessariamente un teatro, è sufficiente uno spazio protetto in cui ci si possa immergere nell’esperienza senza interruzioni esterne, abbastanza ampio da consentire il movimento corporeo. È utile avere a disposizione materiali non specificamente teatrali, come fogli da disegno e colori, creta, oggetti di uso comune, maschere neutre, strumenti a percussione, brani musicali, ogni suggestione che possa favorire il processo creativo.
L’uso del teatro nella relazione d’aiuto si fonda sul principio che le parole spiegano solo una piccola parte della nostra natura più profonda e che quel che accade di importante nella relazione con sé e con gli altri passa dal linguaggio non verbale. In questo contesto il teatro permette di attivare il come se dello spazio scenico e dare significato a dinamiche interne altrimenti difficili da decifrare; è allo stesso tempo un pretesto e una metafora. Il teatro è un pretesto perché serve a svelare: la persona entra in scena pensando di “giocare” a fare un personaggio e si ritrova a personificare sé stessa, a mettere in atto le proprie dinamiche automatiche, che conosce solo in parte e delle quali spesso non ha potuto, nella vita, misurare gli effetti sugli altri. Il teatro è anche una metafora per condividere uno spazio immaginativo: ogni persona possiede un “palcoscenico interiore” abitato da “personaggi interni” o “maschere” che discutono, litigano, si nascondono alla vista. In questo senso è uno strumento potente per il riconoscimento della propria vera identità, fatta di istanze complesse e a volte incoerenti.
La teatroterapia esprime tutto il suo potenziale lavorando in gruppo soprattutto perché, con le parole di Moreno, “ogni persona può essere agente terapeutico per un altro essere umano”: questo significa che tutti i partecipanti sono parte del processo di ricerca, scoperta, creazione. Ogni incontro si apre con una fase di attivazione corporea che ha lo scopo di:
- portare l’attenzione sull’ascolto del corpo e risvegliarlo nel movimento;
- sperimentare il contatto con gli altri ed accorgersi di quel che avviene;
- tornare a sé stessi per integrare l’esperienza.
Si sperimenta subito un fenomeno importante, cioè il fatto che ognuno di noi è popolato di reazioni automatiche: piccoli movimenti, modi di fare e di dire, intonazioni della voce, tutte attività di cui spesso non ci rendiamo nemmeno conto essendo scolpite dentro di noi dall’abitudine. Alcune di esse sono ormai talmente familiari da essere entrate a far parte della nostra identità, al punto che ci caratterizziamo attraverso di loro. Usando la metafora teatrale, potremmo definire maschere queste espressioni automatiche del corpo, una serie di atteggiamenti standardizzati che facciamo fatica a riconoscere come tali e, quindi, a modificare. Questo lavoro di consapevolezza porta pian piano a sciogliere i gesti trattenuti o cristallizzati e il partecipante, con la risonanza del gruppo e il sostegno del conduttore, impara a fidarsi delle proprie spinte interne più profonde. La spontaneità del corpo, liberato dalle costrizioni, consente di far emergere emozioni, sensazioni, immagini e di esprimerle nell’azione fisica, nella voce, nella parola. È attraverso l’improvvisazione che si incontra la spinta creativa interna, sapendo che spontaneità non è libertà di fare “la prima cosa che passa per la testa”, come ha ben argomentato Moreno: anzi, se così intesa, la spontaneità è il segno della nevrosi, dell’automatismo comportamentale. Piuttosto si tratta di connettere il proprio sentire con il contesto, ascoltarsi in rapporto a quel che sta realmente accadendo nella situazione dentro e fuori di sé, per dare una risposta originale, adeguata e soddisfacente, ovvero autentica: in sostanza, per smettere di reagire automaticamente e cominciare ad agire creativamente bisogna affidarsi alla parte destra del cervello, abbandonarsi a gesti, suoni e movimenti che non hanno altro scopo che il piacere (o la necessità) di essere vissuti ed espressi in quel dato momento.
Il processo della teatroterapia punta, quindi, in prima istanza a far contattare al partecipante i propri blocchi e automatismi corporei per riconoscerli e collegarli alla propria esistenza. Per giungere poi all’atto creativo, che si realizza nel movimento autentico, è necessario lavorare su tre passaggi fondamentali:
- La presenza, ovvero la capacità di stare connessi a sé stessi e al circostante, accogliendo quel che emerge nel qui e ora.
- Il respiro, il perno su cui fare affidamento per dare spazio alle sensazioni e alle emozioni e tenere a bada i pensieri distrattivi.
- L’abbandono al gesto spontaneo, ovvero la fiducia nell’autoregolazione organismica, nella guida del corpo, per seguire il suo fluire e le sue spinte fino a raggiungere il massimo della densità espressiva.
Applicazioni della teatroterapia
Riassumendo possiamo dire che la teatroterapia ad orientamento gestaltico attinge la sua efficacia dalla tradizione della Gestalt, dall’opera di Moreno e dal lavoro di ricerca sull’autenticità dell’attore che raggiunge il suo punto culminante con Grotowski. Da queste radici si è sviluppato un metodo che prevede un processo volto a far “entrare” il partecipante sempre più in contatto con sé stesso e con gli altri. Le varie fasi del processo (consapevolezza del sentire corporeo, messa in scena, focus sulle dinamiche automatiche, movimento autentico e integrazione dell’esperienza) devono essere ovviamente adattate al contesto in cui viene proposto il laboratorio.
Tendenzialmente ai bambini si lascia spazio di espressione, proponendo esperienze di gioco, movimento e messa in scena semplici e fruibili, per favorire la fiducia in sé e osservare quali dinamiche emergono nel gruppo.
Con i disabili di ogni età è importante la valutazione delle reali capacità di movimento e interazione, dipendenti dal tipo di fragilità di ogni partecipante; normalmente si lavora in gruppi misti, essendo presenti anche gli educatori/accompagnatori, dove è interessante far vivere l’esperienza della condivisione tra i partecipanti nella libertà del movimento (molto efficace in questo tipo di gruppi è l’uso della danza e della voce).
Nei laboratori di integrazione culturale, invece, è interessante agganciare la parola al movimento, ad esempio creando una scena improvvisata in cui ognuno interagisce con gli altri parlando solo la sua lingua, eppure facendo comprendere e comprendendo l’energia emotiva in gioco.
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La norma UNI 11592:2015 è reperibile sul sito https://www.uni.com/